Napoli: quattro compagni condannati per antifascismo

Mentre in tutto il paese impazza la violenza squadrista, lo stato continua a condannare i militanti antifascisti avvalendosi delle leggi repressive ereditate dal fascismo e "risparmiate" dallo stato democratico.

Dopo Milano e Torino, è la volta di Napoli: quattro compagni (appartenenti al csoa TerraTerra, al collettivo Vesuvio Zona Rossa e al Nucleo Studentesco Metropolitano) hanno
ricevuto un decreto penale di condanna a sei mesi
(pena
commutata in un’ammenda pecuniaria di 3520 euro ciascuno).

I quattro compagni sarebbero stati condannati  "perchè in concorso tra loro, senza aver preavvisato le autorità di pubblica
Sicurezza, promuovevano e dirigevano, unitamente ad altri, la
distribuzione di volantini e la diffusione di slogans a mezzo di
megafono
"(art. 110 c.p. e art. 18 TULPS).

Il riferimento è al presidio antifascista dello scorso luglio che riuscì ad impedire lo svolgimento di una manifestazione dei fascisti criminali di Forza Nuova  al Vomero.

Tutta la nostra massima ed incondizionata solidarietà va agli antifascisti napoletani 

 
riportiamo di seguito il comunicato dei compagni napoletani..

Martedì 20 maggio 4 compagni e compagne del Network Autorganizzato e
del Nucleo Studentesco Metropolitano si sono visti recapitare un
decreto penale di condanna a sei mesi di detenzione convertita in pena
pecuniaria di 3520 euro ciascuno (per un totale di 14mila e 80 euro!).
Il provvedimento di condanna è motivato con la presunta violazione
dell’art. 18 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS),
articolo che prevede una pena fino a sei mesi di detenzione (o la sua
conversione in ammenda) per chiunque organizzi una riunione pubblica
senza preavvisare le autorità di Pubblica Sicurezza. Secondo gli
accusatori, le compagne e i compagni condannati avrebbero violato tale
disposizione del TULPS in occasione del presidio che si tenne nel
luglio scorso in via Scarlatti, organizzato dal movimento antifascista
e antirazzista napoletano e grazie al quale si riuscì ad impedire lo
svolgimento di un’iniziativa di Forza Nuova.

E’ utile ricordare che il TULPS è del 1931, la norma in questione
appartiene, dunque, a quelle numerose disposizioni legislative che ben
rappresentano la continuità tra lo Stato fascista e la Repubblica
democratica: continuità di potere, di interessi, di classe dominante
padronale, e quindi anche continuità normativa e repressiva. Il TULPS è
parte integrante di quell’apparato di norme e procedure finalizzate
alla persecuzione politica, edificato appunto negli anni venti e trenta
del novecento per colpire i lavoratori e le loro lotte, e che la
Repubblica “fondata sul lavoro” non ha mai abrogato.

Al contrario, le norme fasciste sono quotidianamente fatte valere e
applicate dallo Stato democratico, senza alcun imbarazzo, ogni
qualvolta le autorità intendono perseguire finalità di repressione
politica ai danni di compagni e lavoratori.

L’iter della contestazione (Art 459 del Codice di procedura penale) è
subdolo e sconcertante: d’ufficio si procede, infatti, ad infliggere
una condanna (senza preoccuparsi di dare agli imputati alcuna
possibilità di difendersi) ogni qual volta la pena sia pecuniaria o
detentiva tramutabile in ammenda. E’ necessario, per poter avere un
“regolare” processo, preoccuparsi di presentare un ricorso entro dieci
giorni; in caso di mancato ricorso si accetta di fatto la condanna.
Appare evidente che l’intero procedimento miri a intimidire e
demoralizzare la risposta politica dei compagni.

Al di là della forma procedurale, la questione che, a nostro avviso,
merita maggiore attenzione è proprio il reato contestato. Distribuire
volantini e parlare al megafono non è più permesso senza previa
autorizzazione. Queste condanne sono, in breve, al contempo grottesche
e allarmanti e meritano alcune considerazioni politiche.

Tanto per cominciare, esse chiariscono una volta per tutte come non sia
possibile continuare a impostare le proprie riflessioni sulla
repressione incentrandole unicamente sui soggetti di volta in volta
repressi e sulla valutazione delle loro azioni, senza preoccuparsi di
cogliere l’elemento politico che l’atto repressivo sta a rappresentare.
Occorre, dunque, spostare l’asse del ragionamento sull’ineliminabilità
e la presenza costante della repressione e su come essa venga
diversamente applicata di volta in volta. Far partire un procedimento
per un fatto che appare a tutti chiaramente come una pratica diffusa e
consueta, ci dà chiaramente l’indice dell’asprezza dell’attacco
repressivo che registriamo sia a livello europeo che, naturalmente,
nazionale in questa fase.

E’ chiaro che ormai l’attacco è diretto ai più semplici spazi di
agibilità per ridurre al silenzio qualsiasi voce di dissenso. Per far
fronte a questo attacco unilaterale è opportuno dotarsi di una
attrezzatura politica che occorre costruire con una riflessione, un
dibattito e una pratica appropriati. In questi anni abbiamo, impotenti
(e a volte indolenti), assistito alla sottrazione di conquiste che
pensavamo acquisite (si pensi, per dirne una, all’occupazione dei treni
per i cortei nazionali); ampi settori del movimento hanno, infatti,
deciso di arretrare di fronte a questi attacchi, nella speranza che
tale rinuncia potesse garantire spazi di agibilità. E’ evidente ormai
che questo ragionamento risulta essere fallimentare e che è opportuno
invece non arretrare ma difendere le nostre lotte e la nostra stessa
possibilità di fare politica in modo autonomo ed autorganizzato,
comprendendo che la reazione non si arresta e non si accontenta
dell’angolo in cui riesce a metterci ma che, con metodo, lavora
all’annientamento del proprio antagonista e che dunque non è possibile
nessuna forma di compromesso con essa.

Altro elemento che non possiamo non sottolineare è la scelta politica
del bersaglio della reazione. Non è certamente casuale che il
provvedimento di “condanna per decreto” arrivi al termine di un anno di
mobilitazioni e lotte che hanno visto le compagne e i compagni
impegnati quotidianamente contro la precarietà, per i diritti dei
lavoratori e attivi sul terreno dell’antifascismo, dell’antirazzismo,
dell’antisessismo, della solidarietà internazionalista, nonché interni
al più vasto movimento contro la guerra e per i diritti sociali.
Sia il merito del provvedimento che la forma procedurale adottata,
dunque, confermano la matrice squisitamente politica dell’attacco.
Colpendo quattro compagni e compagne hanno inteso colpire un
insieme di percorsi di ricomposizione delle lotte, percorsi costruiti
in piena autonomia dalle istituzioni e lontani da qualsivoglia
compromesso con partiti e forze istituzionali.
Il messaggio che hanno voluto recapitare a tutti noi è il seguente:
“perseverare nel fare politica in maniera realmente autonoma e
autorganizzata è qualcosa che non conviene, perché in una maniera
o nell’altra troveremo il modo di farvela pagare sul piano personale,
eventualmente anche scavando in ottant’anni di legislazione repressiva”.
Ma hanno fatto male i loro conti.
Siamo comunisti, e non ci lasceremo certo intimidire. Continueremo a
sviluppare le nostre lotte e il nostro lavoro politico con una
determinazione sempre maggiore e sempre in una direzione precisa,
immodificabile: contro la classe dominante e i suoi servi, contro il
fascismo, il razzismo e l’imperialismo; per l’autorganizzazione e
l’emancipazione degli oppressi e degli sfruttati!

Firme
C.S.O.A. Terra Terra
Collettivo Vesuvio Zona Rossa – Comuni vesuviani
Collettivo Internazionalista – Napoli
Collettivo Orientale
Nucleo Studentesco Metropolitano

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